“Max, adorabile spericolato”. Dall’amicizia con i fratelli Gazzè all’amore per la musica: il compositore fanese Francesco De Benedittis si racconta

9' di lettura Fano 22/03/2018 - È cresciuto a pane e musica. Nel mentre ha studiato, ha studiato tanto. La sua arte è figlia della passione, sì, ma anche di una profonda preparazione. Lui è Francesco De Benedittis, è fanese e crea canzoni di serie A. Compone pezzi per alcuni “cannonieri” della musica, italiana e non solo. Titolare della Naive Recording Studio, ha all’attivo collaborazioni con Nek, Max Pezzali, Francesco Renga, Marco Carta, Alvaro Soler e altri artisti stranieri, tra cui alcune importanti voci francesi. Poi c’è Max Gazzè. Soprattutto lui, che è una specie di centravanti, perché si propone, osa la manovra. Ed è con lui – e con suo fratello – che Francesco sta inanellando successi e soddisfazioni. Ultimo, ma soltanto in ordine di tempo, il Premio Bigazzi come miglior composizione musicale conquistato al Festival di Sanremo 2018, con il brano “La leggenda di Cristalda e Pizzomunno”.

Francesco, da dove viene questo pezzo?
Ho trascorso qualche giorno in Puglia, a contatto con i viestani. Durante un tour, alcune guide simpaticissime mi hanno raccontato la leggenda di questo scoglio che si erge sulla spiaggia di Vieste. Una storia d’amore che mi ha molto colpito e ispirato. Tornato a Fano ho messo le mani sul pianoforte, poi ho proposto la musica che ne è nata a Francesco Gazzè. Infine abbiamo coinvolto suo fratello Max. Ci è piaciuta l’idea di una canzone che uscisse dai canoni della musica pop, della classifica radio. Abbiamo scelto di partecipare a Sanremo con qualcosa di più difficile e coraggioso. Una canzone sinfonica, in linea con l’album di Max, “Alchemaya”.

Com'è nata la tua collaborazione con Max Gazzè e suo fratello Francesco?
Tempo fa Francesco si è trasferito da Roma, ed è venuto a stare nelle nostre zone. Lui è un bravissimo scrittore di testi. Un giorno l’ho incontrato, abbiamo cominciato ad andare a pranzo insieme. Ci siamo piaciuti dal punto di vista artistico. Così abbiamo cominciato a collaborare, prima per altri cantanti - come Nek e Francesco Renga -, poi con Max. Entrare in un equilibrio del genere non è stato facile. È stato più facile cominciare con gli altri cantanti, sempre insieme a Francesco. I fratelli Gazzè sono stati magnanimi nei miei confronti. Loro venivano da quindici anni di successi, e ora sono già cinque che lavoriamo insieme. Prima di “La vita com’è”, “Teresa” e “Ti sembra normale” siamo partiti - nel 2013 - con “Sotto casa”, sempre per Sanremo. Quello stesso anno ho partecipato anche con “L’essenziale”, cantata da Marco Mengoni.

E hai vinto.
È successa questa cosa, sì. Quest’anno, invece, siamo arrivati sesti, ma poi c’è stato il premio per la miglior composizione assegnato dall’orchestra, gente che studia musica. È un riconoscimento denso di significato. Significa che queste persone hanno apprezzato la musicalità del brano, e non era facile. Non ci aspettavamo di vincere con un pezzo sinfonico, lontano dalle orecchie del popolo. È andato bene anche in radio, dove vanno soprattutto cose più facili, digeribili. Noi invece abbiamo proposto la raffinatezza dell’arrangiamento. Per digerirla ci vuole tempo. Non è vero che la gente che ascolta la musica vuole soltanto cose facili, e questo è un messaggio che voglio dare a tutti. Vengono premiate anche le cose più stratificate, profonde.

È un’ottima notizia, direi.
Mi riempie il cuore di gioia, e dovrebbe dare speranza anche a chi si lamenta e fa polemica, a chi non fa più musica perché in radio c’è solo musica schifosa. Nel nostro piccolo abbiamo provato che anche la musica sinfonica può essere apprezzata da un pubblico mainstream.

Dov’eri quando hai saputo del premio?
Mi trovavo a Casa Sanremo, dove stanno gli autori, i discografici e anche l’ufficio stampa della Rai. Sento la tensione della gara, quindi non sto dentro l’Ariston. La finale equivale sempre alle tre ore più lunghe della mia vita. Una volta appurato che eravamo fuori dalla rosa dei primi tre abbiamo pensato fosse finita lì. Poi è arrivato il premio Bigazzi. È stato uno tra i riconoscimenti più insperati.

Cos’ha significato per te?
Non avevo bisogno di premi. Per me lo è già il fatto di poter fare musica, entrare nelle case della gente. E lavorare con Max. Ma sarei un ipocrita a dire che non ho fatto un salto di tre metri. Vincere il Bigazzi ha contribuito a darmi la benzina di cui necessito. In questo lavoro si fatica ad avere riconoscimenti. Noi autori siamo delle eminenze grigie, restiamo dietro le quinte. Non saliamo sui palchi, anche se ci piacerebbe. Spesso e volentieri il pubblico non ci conosce. Questo premio mi dà la voglia di continuare. Mi ricorda che stiamo dando delle emozioni a qualcuno, e che sto andando nella direzione giusta.

Com'è lavorare con Max?
Max è uno che non si tira indietro di fronte a cose un po’ più difficili. È coraggioso andare a Sanremo con una canzone come “La leggenda di Cristalda e Pizzomunno”, con i suoi stimoli originali, balordi. Non ha il testo facile da Sanremo, e non è da tutti mettersi in gioco ogni volta e rischiare. A me piace molto lavorare con lui, perché non ha paura di fare queste cose strambe e rischiose. Altri interpreti non se la sarebbero sentita. Quando sei a un certo livello hai paura di fare qualche passo falso. Max è uno spericolato. Ha l’idea fissa di voler sorprendere, e questa è la cosa più divertente e allo stesso tempo più difficile da chiedere a un autore.

Progetti futuri (con i Gazzè e non)?
Qualcosa bolle da tempo, tra cui il futuro album pop di Max. Nel frattempo porto avanti il progetto Montechristo con il mio grande amico Antonio Toni. Siamo un duo elettro-pop. Sono contento, perché per la prima volta scrivo per me stesso, e insieme al mio collega. Ci sto giocando, mi piace sperimentare cose nuove. Vediamo che piega prenderà. Ad ogni modo continuerò a scrivere anche per altri cantanti.

Ad esempio?
Non posso parlare.

E il tuo amore per la musica da dove viene?
Mi è stato trasferito di miei genitori, dalla prima all’ultima goccia. Mio padre è venuto a mancare poco tempo fa. Era un grande estimatore di musica, dalla sinfonica alla popolare. Sin da piccolo in casa mia c’erano i vinili. Mia madre, invece, predilige i cantautori italiani, da Lucio Dalla a Francesco De Gregori, passando per Fabrizio De Andrè. Li devo ringraziare, perché non mi hanno mai ostacolato. Anzi, durante i momenti di timore mi hanno spinto, mi hanno invitato a rischiare. Sono stati loro a finanziarmi gli studi di musica a Milano. Sono stato fortunato ad avere due genitori così. Mia madre tuttora mi segue ed è felice. Segue le mie composizioni, credo sia fiera di me. Mio padre, fino agli ultimi giorni, era contento di me e del lavoro che stavo facendo.

Qual è la parte più gratificante del tuo lavoro?
All’inizio pensavo che la cosa più appagante fosse riascoltare le tue canzoni in radio. Con gli anni ho notato con stupore che non è così. È quando la sera riascolti la tua composizione e scopri in cuor tuo che è qualcosa di bello. Sei felice come un bambino, come il giorno prima di Natale. Non mi accade spesso, ma ci sono volte magiche in cui me ne vado a casa e sono contento anche di fare la spesa e di cucinare. È bello ascoltarti in radio, ma non ha a che fare con il piacere della creazione. Fare una canzone è come partorire un figlio ed esserne fiero.

E la parte più difficile qual è?
Ci sono giornate no, in cui però devi creare. Devi mettere insieme i pezzi, tirar fuori tre minuti e mezzo con della musica bella e orecchiabile. Certe volte, con tutti i pensieri che puoi avere, creare non è una cosa facile. Se ad esempio cominci la giornata con un litigio, poi scrivere una bella canzone non è automatico, anche se succede che nei periodi tristi ti vengano fuori cose più introspettive. È un modo per liberarti dal dolore. La musica ha proprietà curative.

Quindi pensi anche tu che per fare arte bisogna essere tristi e cupi?
È un aspetto, ma dire che sia tutto qui è un’assurdità. Non è vero che uno deve stare per forza male. Si scrive in maggiore e in minore. Quando si è più tristi escono cose diverse rispetto a quando sei felice. Sono più sfaccettate. Ma quando sei felice possono uscire cose simpatiche, come “Ti sembra normale” o “Teresa”.

Un consiglio a chi vuol fare questo mestiere.
Devo essere sincero: bisogna studiare. Io ho dovuto sacrificare tante cose per portare avanti questa mia passione. Ho studiato a Milano, sono andato all’estero. Non è un sogno irrealizzabile. Ci puoi tirar fuori uno stipendio, ma serve impegno e non bisogna demordere. Poi è questione di tempo. In questo senso è un lavoro come un altro, stesse regole. Se ti impegni i risultati arrivano. Se ad esempio vuoi scrivere testi devi leggerti i cantautori italiani. Per tre o quattro ore al giorno devi addestrarti a scrivere. Poi ti devi proporre alle case discografiche, a sfinimento, finché qualcuno non ti richiama. Ma prima devi dedicare ore e ore a quello che vuoi fare. Altrimenti è come chi spera di fare il calciatore professionista ma dà due calci al pallone giusto la domenica. Può diventare il più bravo del quartiere, ma fuori prende le legnate, perché non ha nemmeno il fiato.

(Foto di Wilson Santinelli)








Questa è un'intervista pubblicata il 22-03-2018 alle 11:20 sul giornale del 23 marzo 2018 - 2098 letture

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